E’ ora di cambiare logo?
Introduzione al rebranding aziendale
Oggi scopriamo insieme a Logonline se è giunta l’ora di rinfrescare la tua immagine aziendale.
Molte aziende affrontano il rebranding parziale o totale per svariati motivi. A volte si è tratta di un cambiamento radicale come quello del pittogramma o dello stemma, altre di semplici variazioni di colore o di font con intenti specifici.
Spesso purtroppo i risultati non sono all’altezza delle aspettative, ne vedremo alcuni.
Ma cosa spinge aziende storiche e con una brand awareness consolidata a prendere questa decisione?
Normalmente si tratta di un adeguamento conseguente ad un cambiamento di mission o target, oppure per estensioni di linea, altre volte alla ricerca di un coinvolgimento più ampio del pubblico di riferimento.
Spesso è necessario semplicemente un restyling dettato dal passare del tempo, con il semplice obiettivo di rendere l’immagine aziendale più attuale e contemporanea. Pensiamo, ad esempio, ad un’azienda a conduzione familiare che inizi l’attività con il logo disegnato a mano dal proprietario.
Facile immaginare che si troverà con un pubblico di Millenials che non si identificano in uno stemma anni ’50. Un’evoluzione simile la ha interessato, ad esempio, lo stemma della Juventus che ha subito diversi aggiornamenti dal lontano 1905.
Anche se per l’immagine coordinata aziendale è altamente sconsigliabile seguire le mode è altresì vero che il gusto e lo stile seguono inevitabili ed importanti evoluzioni che su loghi datati mostrano tutti i segni del tempo e si rischia di inficiare il riconoscimento da parte del pubblico di riferimento.
Fra le aziende storiche e i colossi di fama mondiale che hanno avvertito questa esigenza, anche più volte nel corso della loro storia, troviamo Apple, Airbnb, Windows, Google, Pepsi, Ikea, Tim, solo per citarne alcune.
Come già accennato, non sempre la corsa verso il nuovo si è rivelata vincente ed in alcuni casi si sono effettuate delle vere e proprie clamorose inversioni di rotta, a seguito di critiche da parte degli addetti ai lavori o di rimostranze da parte di clienti indispettiti.
In alcuni casi infatti, nonostante i grossi investimenti in termini di tempo e denaro, i risultati sono stati altamente discutibili, a volte il fallimento è stato il risultato di eccessive o inutili semplificazioni, altre volte, al contrario, di superflue linee o sfumature tali da complicare la lettura del logo stesso, come è avvenuto per Mastercard in tempi recenti.
In qualche caso più raro le variazioni hanno coinvolto non solo il logo ma anche il naming, con importanti e negative ripercussioni sulla percezione del cliente/utente: si tratta di casi di rebranding totali dall’esito infelice.
Non è il caso – particolarissimo – di Ikea che ha visto un semplice cambio di font per la segnaletica interna scatenare le rimostranze dei clienti, spaesati dal cambiamento.
Diverso ancora il caso di rebranding di McDonald’s, nato a seguito di un cambio sostanziale di rotta della politica aziendale: l’introduzione del fondo verde in Europa ha segnato visivamente l’introduzione di più frutta e verdura nel suo menù, in risposta alle critiche di un’eccessiva proposta di junk food.
L’intento aziendale in questo caso era palese: trasformare la percezione del brand in ottica di fiducia e rispetto attraverso il cambio colore.
Insomma si tratta di un tema delicato che va compreso fino in fondo facendo una giusta media fra le motivazioni iniziali ed il risultato finale. Per operazioni così complesse che coinvolgono aziende di un certo calibro e la necessità di trasmettere cambiamenti di valori o filosofia aziendale è sempre bene partire da un brief e non dal gusto personale, come purtroppo spesso accade.
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